Chi ama i fumetti sa che non c’è un’età per smettere di leggerli. Tolgono ancora belle soddisfazioni a chi va oltre il piatto unico dei social.
In più hanno qualcosa di raro, di questi tempi: una superficie e due dimensioni. Tocca a noi immaginare la terza.

Chi ama il fumetto sa che è un’arte sequenziale: dove tutto scorre, in streaming, ordina e frammenta.
Non somministra sintesi, problematizza. Non procede per scorciatoie ma per sentieri o superstrade.
Non aggiunge per aggiungere: per aggiungere, sottrae. Non fa spoiler. Suggerisce.

Chi ama i fumetti sa che sono comunicazione allo stato puro.

Scott McCloud, autore del fortunato “Capire il fumetto” (primo volume di una trilogia illustrata che racconta origini, tecniche, correnti, crisi e rinascite della Nona Arte) coglie il segreto di questo medium in qualcosa di piccolo, stretto, di primo acchito irrilevante.

La closure.

Per “closure” s’intende la striscia bianca che separa due vignette. Curioso che significhi “chiusura, soppressione” e al tempo stesso “proposito, fine”. Vuoi vedere che il fine del fumetto non sta nelle sequenze che fanno la narrazione, ma nel confine formale che le delimita?

Secondo McCloud, l’esile spazio tra i riquadri rappresenta l’intervallo di tempo, trama, concetto tra due momenti della storia.
Una “chiusura”, appunto, che viene accettata e capita inconsciamente.

Una pausa di respiro, un in between che chiama in causa necessariamente il lettore. Non c’è istante in cui egli non sia costretto ad assemblare le parti in un continuum, a usare la closure come plancia di una tridimensionalità che non si può rappresentare, ma si deve immaginare. Ecco: lo spazio bianco siamo noi.

Noi che “sommiamo due più due”, connettiamo pezzi di storia e spaziamo tra contesti.
Noi che da un mosaico sappiamo trarre un flusso.

Un momento. Tutto questo non somiglia alla customer centricity?

Via via che il pubblico diventa più attivo, partecipe, coinvolto nelle vite dei brand, è come se acquisisse porzioni di spazio argomentativo.
A “chiudere” il ciclo dei contenuti non è più il monologo aziendale ma il resoconto personale di chi commenta, interagisce, ridiscute, confuta o abilita gli argomenti della marca.

Come in un fumetto, le nuove buyer personas – sempre meno astratte e più sfaccettate, vive – completano l’arazzo posizionando i rettangoli, cioè i nessi, tra le “vignette”. Intervengono così, scartando o scegliendo.

In questo è significativa la posizione di Ann Handley, mente limpida del marketing digitale: “Trasforma il tuo cliente in un eroe della tua storia”.

Storia, eroe… Il cerchio si chiude.

Ma se al marketer navigato questa interpretazione sembra ardita, prendiamola nel suo insieme: oggi la comunicazione non è forse più sfidante che mai? L’approccio ai contenuti non è più aperto, problematico, bilaterale?
Non è vero che chiediamo ogni giorno di più a chi ci guarda, non solo a fini commerciali ma anche attraverso scelte creative reali o presunte, come in Black Mirror: Bandersnatch?

Ogni volta che rispondiamo di sì, lo spazio bianco della closure si allarga un po’.

E una novella regina guadagna il posto sul trono, alla destra del venerando Content King.

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