Di Paolo Margonari

Perché vi chiamate Milk?

Da dieci anni me lo chiedono, da dieci anni cerco di dare una risposta razionale.
La verità è che non c’è un motivo. È stata una semplice intuizione.
Buona? Pare di sì. Di sicuro, buona è stata l’idea di unire coraggio ed esperienze per affrontare il mondo della comunicazione in un decennio movimentato come un cinquantennio.

Nel 2008, mentre stavamo ultimando il trasloco nei nuovi uffici, Obama si insediava alla Casa Bianca con un discorso memorabile.
Oggi, mentre scrivo questo post, Trump minaccia nuovi dazi nei confronti
di tutto ciò che non sia a stelle e strisce.
È evidente che tante cose sono cambiate.

Ci conosciamo, condividiamo, acquistiamo, ci informiamo e divertiamo
con un polpastrello.
I brand sono diventati persone; le persone, dei brand. Il Digital ha realizzato il sogno di poter dialogare con ognuna di loro.
Abbiamo meno prodotti da esibire e più valori da condividere, mentre le bugie bianche della TV hanno lasciato spazio alla trasparente sincerità dei social.
Anch’io non sono lo stesso, la mia barba è completamente grigia e i capelli, beh, lasciamo perdere.

Eppure c’è qualcosa di così microscopico, nascosto, timido e, nel contempo, insensibile ai mutamenti.
Qualcosa che mi fa ringraziare il cielo per un mestiere che mestiere non è.
Qualcosa che, nonostante i “Non c’è budget”, i “Logo più grande”, i “È una gara senza rimborso” mi fa sentire un privilegiato.
Qualcosa che, come un brivido, mi attraversa la schiena per avvertirmi che sì, quell’idea è proprio buona.

I miei soci, i ragazzi del team, i manager dei nostri brand non lo sanno, ma quando la mattina accendono i loro device accendono in me qualcosa.
Perché quel qualcosa si nutre di Milk, ogni giorno, da dieci anni.
Ed è qualcosa di cui non posso più fare a meno.