La comunicazione pubblicitaria è una lingua. Ha un lessico, una grammatica, ma la sua forza si esprime sempre all’interno di un discorso. Parlandone. Facendola. Tuttavia, anche chi ha fatto della comunicazione un mestiere fatica a coglierne i segreti tout court. Perché ancora non esiste una definizione unica di ciò che sfugge alle logiche dei manuali. In fondo, come definire la lingua italiana se non parlando italiano?
Se vuoi imparare a comunicare, inizia a comunicare. Sembra questa la via più percorribile: “empirismo creativo”, un artigianato in divenire che considera lo storico di campagne, case history, spunti e al tempo stesso si modella sulle nuove correnti, su nuovi target e linguaggi. Possibile che non ci sia un modo – non certo il modo, ma un tentativo di esplorazione – per osservare la pubblicità da un’altra prospettiva?
Guardiamoci intorno. Siamo circondati da simboli: nella vita quotidiana (simboli religiosi, politici, sociali, social), così come nella relazione, altrettanto quotidiana, con le marche e i loro loghi. In quanti loghi ci imbattiamo passeggiando per strada, navigando sul web? Il logo, oltre che un simbolo in sé, è il simbolo di ogni azienda, così come della nostra professione. Resiste alle mode, è sempre di moda. Perché?
“Syn-bállein”, in greco, vuol dire “mettere insieme”, “riunire”. Per estensione, è qualcosa che chiama a raccolta più significati, più valori e li avvicina, li organizza all’interno di un tutto. La stessa parola logo deriva da “léghein”, raccogliere, radunare, come in una legione. Riunire più sensi in uno è proprio quello che fanno i simboli. E i loghi.
La mela di Apple, ad esempio, ci fa venire in mente quella tecnologia. Ma al nostro inconscio dice di più: attinge alla fonte del desiderio, della trasgressione, del peccato, evocando il frutto che, appena addentato (al logo di Cupertino manca un “morso”), sancisce la caduta dall’Eden. Che messaggio lascia, nel profondo di noi stessi? “È misterioso. È succoso. È proibito. Lo voglio”.
Il logo, la mascotte, il testimonial, l’influencer: questi elementi di comunicazione sono tutti simboli.
Sono figli dello stesso percorso che da una forma aurorale (la mela, lo swoosh), evolve in rappresentazione, in un valore che si fa volto (il testimonial, l’influencer). Il fine è collegare (sym-bállein) per via diretta, sintetica, unitaria, pubblico e brand.
Fin qui tutto bene. Abbiamo accennato all’aspetto “apollineo”, solare, del simbolo come a una ricorrenza.
Ma se è assodato che chi comunica pesca dalla vita vera, di certo esisterà anche un lato “dionisiaco”, ribollente, oscuro. Qui ci viene incontro la psicologia junghiana, con il concetto di “sintomo”.
Mentre nel simbolo Jung vede il legame inconscio con le grandi figure dell’emozione (paternità, femminilità, infanzia, crescita, amore), nel sintomo (sym-píptein, “cadere insieme”) individua il suo contrario: l’idea di qualcosa che separa, che scinde e provoca traumi.
Pensiamo agli storytelling, agli esperimenti e alle campagne sociali, alle operazioni unconventional.
Dal video “Evolution” di Dove, primo a trattare il culto dell’estetica come “sintomo” di una società esclusivista, fino alla recente e vincente “Fearless Girl”, che eleva la statua di una ragazzina a emblema di giustizia contro i “sintomi” di certa finanza: ovunque serva un contenuto complesso, dialettico, perfino traumatico (leggi: autentico), entra in gioco l’altra faccia del simbolo.
Così, come in una grande narrazione convivono luci e ombre, tra le idee di un’agenzia possono coesistere simbolo e sintomo, unione e scissione, armonia e conflitto: dove il primo avvicina, scalda, rassicura, il secondo provoca, sconvolge, rivela. È il “doppio movimento” della vita. Tocca a noi rappresentarla al meglio; addentrandoci, con gioia “simbolica” e coraggio “sintomatico”, nella selva della comunicazione.