C’era una volta un uomo che si alzava tutti i giorni alle cinque in punto. Qualche ora dopo, alle due e trenta del pomeriggio, usciva per la passeggiata pomeridiana. Al rintoccare delle ventuno lasciava di nuovo lo studio per trascorrere del tempo da solo nel suo giardino. Dedicava il resto delle giornate a stendere su carta le idee che avrebbero cambiato per sempre il modo di pensare, giudicare, immaginare di tutti noi.

Quell’uomo era Immanuel Kant.

Dire che la Ragion Pura sia nata passeggiando è un azzardo. Ma il fatto che un filosofo del suo calibro scandisse la vita così, al ritmo dei passi, non sorprende.
Anzi: sembra una costante, un’eco che ritorna ogni volta che la mente chiede spazio, cerca l’oltre, pensa l’impensato.

I seguaci dello stoico Zenone discutevano di logica camminando sotto un portico (la stoá). Il poeta Rainer Maria Rilke trasse l’ispirazione delle Elegie duinesi lungo un sentiero che oggi porta il suo nome. Pare che Giacomo Puccini avesse scelto di diventare compositore dopo trenta chilometri a piedi da Lucca a Pisa.
Ci sono manager di Google che fanno brainstorming in marcia.

Tutti sappiamo che fotografi, designer, illustratori non stanno mai fermi. Hanno bisogno di spostarsi, dalla piazza al vicolo cieco, per trovare lo spunto da convertire in arte. Ma se si tratta di scrivere la sceneggiatura di uno spot o le linee guida di una strategia, l’immagine ricorrente è di uomini e donne seduti al pc, i gomiti sul tavolo, intenti a sbuffare e a grattarsi la testa.

Beh, è così.

I tempi stretti, i ritmi incalzanti, il fascino di Wikipedia & Co. hanno ultimato un processo irreversibile che coinvolge i comunicatori, nessuno escluso: lo scisma tra mente e corpo, dinamismo e stasi.
Niente di così drammatico: non esiste una regola su come, dove e quando formulare idee.
Forse però è utile ricordarsi, nell’ora d’aria tra un concept e l’altro, di quanto il pensiero sia movimento.

Tanto più il mondo corre, scappa, è nomade e furtivo, quanto più cerchiamo di stargli dietro, di agguantarlo e interpretarlo fermi dietro una scrivania.
È finita l’epoca in cui i Mad Man à la Don Draper risolvevano un’impasse girovagando per Manhattan, sostenuti da fiumi di whisky e fumo di sigaro. Questo significa che dobbiamo tornare a lavorare on the road, o che appollaiati sul desk non abbiamo più buone idee? Ovvio che no. Ma se ci pensiamo bene, da dove viene fuori la maggior parte di queste idee?

Non nasce forse da “quella volta che”?

Ma sì, da quello scambio di battute con una sconosciuta al parco, da quel commento a denti stretti in coda alle poste, da quell’insegna che ci ha stregati, scoprendo Berlino. Da tutti gli episodi che viviamo, da tutti i passi che compiamo. Dentro e fuori di metafora.

Il fatto è che le idee non arrivano, finché in qualche modo non ci attraversano. Se l’ufficio è il nuovo habitat naturale, per un pubblicitario deve essere altrettanto naturale dissociarsi dal callo del “terminalista”: quello per cui ogni problema si possa risolvere via web o software.
Altrimenti si è perduti. Il detto “la vita è là fuori” non è mai stato così vero in un’era in cui l’esperienza, ludica e professionale, è filtrata dal display.

A volte basta poco: il tragitto a piedi da casa al bus e dal bus al treno. Va bene pure il viaggio in treno.
Frangenti che non tolgono tempo, lo avvalorano: lontani dalla scrivania ma spesso più vicini a un’idea, quell’idea che in otto ore chiusi dentro ad aspettare non si è mica presentata.

Se le cose stanno così, essere pendolari non è un castigo divino all’italiana. È una condizione dell’anima, una scelta creativa. Ci spinge a rivedere da un altro punto di vista le regole ferree, i paradigmi incrollabili, i pregiudizi acquisiti che rischiano di sorgere per colpa della troppa esposizione ai raggi digitali.
Pendolari sono le idee, quando viaggiano con noi.

Questo post è stato scritto sul regionale Padova-Vicenza.
Perché il colpevole, a differenza di Kant, non ha il giardino.

Photo credits: © José Duarte