Un neonato che si guarda per la prima volta allo specchio non riconosce la propria immagine. Non coglie neppure una somiglianza con quella forma che lo fissa stupita dall’altra parte. Per attivare un primo stadio di riconoscimento è indispensabile una seconda figura vicina a lui. La madre.
È qui che accade la magia: osservando il riflesso della donna allo specchio, il bimbo riconosce subito la mamma. Quella forma diventa così il medium attraverso cui scoprire lo specchio, ovvero il mondo, come un riflesso della realtà. Ed è solo attraverso l’immagine della mamma che il bimbo finalmente capisce che l’altro è lui.
Questa illuminante rappresentazione dell’Io è un debito del genio di Jacques Lacan, il filosofo e psicanalista che più di ogni altro, nel Novecento, ha indagato il conflitto inconciliabile dell’inconscio umano: l’ossessiva domanda di riconoscimento.
Il fatto di parlare, di comunicare, implica la presenza dell’Altro.
In ogni rapporto, privato o professionale, non esistono soliloqui. Ogni singolo “altro” (il parente, il partner, l’amico, il passante, il collega, il cliente) è la condizione senza cui non si dà comunicazione.
Ha un ruolo chiave: riconosce il nostro “parlare”, riconosce noi e quindi anche se stesso.
Come tutte le forme di comunicazione, anche quella pubblicitaria sottintende questa logica interpersonale. I brand hanno compreso molto presto di non poter essere circoli chiusi, camere oscure, celle impermeabili alla luce.
Hanno bisogno di scendere nel territorio dell’Altro per essere riconosciuti. Per essere.
Per cui la pubblicità non può avere efficacia se si ferma allo statement: “Io sono”.
Per dirla con Lacan, deve continuare a problematizzare la domanda più potente: “Chi sono?”
Non è un caso se nelle agende dei marketers è sempre più centrale l’analisi del sentiment. Se ne parla pressoché ovunque, dai convegni di settore ai post su LinkedIn. Un tema esplorato con dovizia di particolari sul piano tecnico e strategico.
Ma ciò che lo rende urgente è il presupposto: la ricerca di risposta a una domanda di riconoscimento.
Mai come oggi il commento, la recensione, la reputazione e, in generale, il feedback hanno avuto tanto margine nel linguaggio del brand. L’analisi del sentiment tenta di rispondere al bisogno di sapere come facciamo le cose secondo te, quindi per l’Altro.
Non solo: anziché fermarsi al monitoraggio, grazie agli strumenti della tecnologia mira a orientare consapevolmente la risposta. Sollecita l’Altro a formulare un’immagine di noi che ci rispecchi, che ci dica chi siamo.
Quale meccanismo si attiva, mentre siamo impegnati ad analizzare?
Il trinomio bimbo-specchio-mamma rivive nella dinamica brand-sentiment-pubblico.
L’analisi del sentiment è quindi il tramite, il medium che aiuta il brand a ridefinire l’identità, a consolidare o ri-consolidare la reputazione attraverso l’occhio critico (“materno”) del pubblico.
Più un’azienda si dimostra sensibile a questo processo, incoraggiando con metodo l’analisi, meglio s’identifica, si posiziona, si riconfigura: più sa di sé.
Non è innocuo adottare questa prospettiva, perché è radicale. Di fatto, smentisce un fondamento incrollabile di ogni umanesimo così come di ogni epopea aziendale: quello che ci vede totalmente consapevoli della nostra identità. Tutt’altro: ci ricorda che non siamo mai noi stessi, che un’azienda non è mai fino in fondo se stessa, senza l’Altro.
Quando invece la comunicazione assume contorni dialettici, di messa in gioco del senso e dell’identità – d’inesauribile domanda – soltanto allora possiamo iniziare a farci riconoscere e a riconoscerci. Così, l’analisi del sentiment evolve da espediente tecnico-tattico a indagine fondativa, da report strategico a orizzonte etico.
Questi principi e queste pratiche entrano di diritto nella comunicazione di Milk.
Siamo pronti a guardarci allo specchio. E tu? Ti riconosci?