Voi non avete fame? Sì che ne avete.
Di contenuti: sul feed, tra le stories, on demand, in streaming.
Nel corso del 2018 (fonte: Ninja Marketing) Facebook ha registrato 8 miliardi di visualizzazioni video al giorno. Su YouTube sono state caricate 300 ore di girato al minuto. Su Instagram, ogni mese, 40 miliardi di foto. Non proprio uno spuntino.
Né una lenta degustazione: oggi il tempo di fruizione di un video non supera la media di 3 secondi.
Il termine “consumatori”, divenuto di colpo inattuale, forse non è mai stato così attuale.
La disponibilità di risorse (parliamo di quelle digitali) è inesauribile. È stravolto il ruolo stesso di “chi consuma”.
Al ristorante la gente si è alzata da tavola per andare a dare dritte allo chef.
Fuori di metafora, il pubblico non riceve più i contenuti ma contribuisce a crearli.
Non nascerebbero nemmeno più, senza il suo coinvolgimento. Perché tutti, almeno in potenza, abbiamo accesso agli ingredienti della comunicazione.
Il protagonismo di massa è il sale del (nuovo) mercato, ma ci rende anche più impazienti, distratti, voraci.
Spesso gli addetti del mestiere oscillano tra la pazienza necessaria a dare vita ai progetti e una deriva pericolosa: quella di consegnarsi al sistema Deliveroo, quasi fossimo la brigata di un all you can brief.
Fortuna che dalla pentola delle comande continua a uscire il profumino dell’idea.
I ritmi aumentano, i tempi si riducono ma la qualità è l’imperativo immutabile del brand.
Ed è ancora una volta dei comunicatori (strategist, account, creativi, nessuno escluso) il compito di sfornare manicaretti.
Facile inseguire l’orologio. Meno il cambiamento: urge ripensare i ruoli in un’ottica mobile, ibrida, onnivora.
Mettiamo a confronto un trentenne e un quindicenne.
Per il primo il presente è Facebook. Il secondo lo ha già messo tra gli avanzi.
Il primo sa chi è il nerd, l’hipster, la fashionista. Il secondo vuole sapere che tipo di nerd, di hipster e di fashionista.
Il primo non “triggera” e non “shara”. Il secondo si è stufato di farlo e ha pronte novità che il primo non avrà mai il tempo di digerire.
Non appena scopriamo qualcosa in più di questo fagocitante tessuto socio-digitale, nuovi microtrend spuntano fuori alla velocità di uno snack scartato. Gli antidoti alla resa? Curiosità. Apertura. Fame.
È inutile confrontarsi con le “nuove generazioni” se prima non si accetta il fatto che sono realmente nuove.
Superano le classiche definizioni da Ufficio Marketing: target, prospect, buyer personas…
Forse un termine più adatto è eaters, da non confondersi con l’agguerrita falange degli haters.
Gli eaters usano i filtri ma non hanno filtri. Si stufano. Ti sfidano. Ti sgamano.
Gli eaters non devono: possono. Mangiano tutto, mangiano subito e ne vogliono ancora. E ancora. E ancora.
Ma cosa devono fare i comunicatori, per stare al passo? Alzare la vita ai jeans?
Non si tratta di snaturare una cultura e una pratica acquisite: scimmiottare i giovani è un modo infallibile di mostrarsi vecchi.
Non serve cambiare l’approccio all’idea, se è vero che le buone idee – intese come traduzioni del proprio tempo – sono senza tempo.
Eppure gli eaters un tempo ce l’hanno: qui e ora. Si potrebbe iniziare mettendo il naso fuori dalle nostre cucine / fucine creative.
Possiamo parlarci, avvicinarci al loro mondo, al loro modo di parlare, di essere, di chattare, di “divorare”.
Per di più [SPOILER], possiamo farlo con qualità. Entrare in contatto con queste digital tribes è il primo requisito per fare delle caratteristiche simboli, delle debolezze punti di forza, delle esperienze espressioni.
La ricetta è complessa ma sfidante. Un assaggio: sciogliere le riserve, far sbollire i pregiudizi, aggiungere ascolto, un pizzico di coraggio, autoironia a piacere. Condire con estro, semplicità, amore per la sintesi.
Consigliato non snobbare, ma servire e condividere.
Buon ape, bro.
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